— Siro Industry

In questi ultimi giorni dell’anno, una mia cara amica nel ricordarmi che “ci restano solo le parole”, ha smosso in me la voglia di usarle, condividerle, costruirci qualcosa, con queste parole.

Sono passati 6 mesi da quando sono diventato papà. Anzi, più precisamente: sono 6 mesi che la mia compagna ha messo al mondo (a Cesare quel che è di Cesare) nostro figlio. Quindi sono 6 mesi che cerco di interpretare, conoscere, costruire la mia esperienza di paternità. Un divenire composto da così tante dimensioni che forse ancora non le ho ancora ben viste o capite tutte. 

Partiamo da qui. 

La prima parola con cui descrivere questi sei mesi è rivoluzione.

Ho sempre provato a comprendere fino in fondo il concetto mentre lo studiavo a scuola: la rivoluzione industriale, quella francese, la digitale. Ok, lo capivo, ma non sempre lo comprendevo. Ora mi è chiaro. Il fatto è che non si torna più indietro. Ogni aspetto è toccato da esso. Nessuna categoria, momento, istante è indenne e al tempo stesso c’è un chiaro prima e dopo. La continuità è interrotta, c’è un salto tra i due momenti. Un salto che ha il suono di uno stridulo, ha addosso il sangue di vita, si perde nello sguardo più profondo su cui ho posato gli occhi.

La seconda parola è nervi.

Ho preferito nervi a burrascoso, a “messa alla prova”, a compromessi. Riguarda la vita di coppia, riguarda il poco sonno, i “chi si alza per riaddormentarlo?”. Le diverse prospettive che portavano ricchezza e frizzantezza alla coppia diventano tavoli di discussione, compromessi da cercare in uno stato di sbornia senza fine. Nervi scoperti, punti deboli, con cui il neonato si diverte a giocare, a toccare, a far saltare. E allora un abbraccio conosce una nuova profondità, uno sguardo può scaricare giorni di frustrazione o far sentire meno soli e offrire un caldo e complice riparo dalla tempesta.

La terza è indaco.

Il colore del cielo all’alba. In lui ritrovi lo stesso alleato delle mattine del treno per l’università. Mentre dondoli questo esserino, lui ti sorride dall’alto. Lentamente sfuma e si apre davanti ai tuoi occhi: da scuro con le prime luci, via via lo schiarirsi ti guida e porta in quella serenità che l’animo trova alla fine di una notte di “perché strilla”, “non capisco più cosa sia”. Quell’indaco che poi si stende dolcemente sulla pelle candida che riposa tra le tue braccia, e porta via ogni rancore della notte, per lasciarti davanti al nuovo giorno, con le tempie avvolte da un dolce manto.

La quarta è maschera d’ossigeno.

Avete presente quella che descrivono nelle istruzioni di sicurezza sugli aerei? Li, mentre ci chiediamo se ha senso riascoltarle o andare avanti con la canzone nelle cuffie, in quell’istante, le compagnie aree ci stanno dando un consiglio, un punto valoriale indispensabile. Parafrasando dicono: “Gli adulti si mettano le maschere e poi le mettano ai bambini”. Se non fosse stato chiaro dopo la psicoterapia o gli scritti di Freud, la serenità del bambino è funzione dipendente – sottolineo dipendente – da quella del care giver (bisognerebbe chiamarci cosi, si). Metto il figlio davanti a tutto è una stronzata. Sa prendersi la priorità su tante cose, gliela concederò su molte, ma quel secondo in più di pianto per l’ultimo sorso di birra, quello glielo lascio fare, sicché lo prenderò in braccio senza lasciare briciole di rancore sparse nell’animo.

Quinta e ultima è senso.

Per chi, come me, ama leggere Nietzsche e gli autori che lo trattano, saprà che “senso” è una parola problematica, ricca di contraddizioni, un po’ puttana al servizio di religione, psicoterapia, e in fin dei conti forse vuota se la si guarda bene bene fino in fondo. 

Però è anche la parola che meglio sintetizza il prendersi cura, lo svegliarsi sorridendo, il guardare al domani con serenità e senza paure, un abbraccio che odora di latte, vomitino e amore incondizionato. 

Forse tiene anche quel lato patetico che preferiamo nasconderci, quelle fragilità e speranze che emergono quando siamo soli davanti allo specchio del bagno. Perché anche in quei momenti, davanti a quegli sguardi che solo noi conosciamo, a quell’intimità di sensazioni ed emozioni che non sono ancora pensiero, anche li, sembra arrivare lo sguardo e l’intesa di un figlio. Forse proiezioni, o qualche ultima traccia di pensiero magico in noi. Quel che so, è che esso è dolce come il miele. Caldo come l’abbraccio in tre sotto le coperte quando fuori fa freddo. Spensierato come il ballare Sean Paul davanti lo specchio della cabina armadio.

Si è svegliato, tocca a me accudirlo. 

Anzi no, ci è andata la mamma.

Read More
Unsplash

“Guadagnarsi da vivere”.
Non fa un po’ strano che tra noi e gli uomini delle caverne sia cambiato ben poco?
Dai graffiti sui muri all’intelligenza artificiale, e nonostante tutto “guadagnarsi da vivere”.

Stando a David Hume, nelle corti del Settecento occorreva essere accomodanti con i Signori per garantirsi vitalizi e un posto a corte. Certo, ogni tanto si vede Figaro a nozze, ma nella stragrande maggioranza dei casi è il modello della vita di corte che tiene il palco.

Vita di corte contemporanea, solo che invece dei Signori c’è finito Uno, nessuno, centomila. 
E quindi via a intavolare nella mente scenari della durata d’un battito di ciglia e il lascito emotivo d’una guerra in trincea. Scelte quotidiane che diventano partite di Risiko con la necessità di far tutto con savoir faire.

Quando è chiaro che nessuno ha più riaperto quel pozzo in cui per sbaglio, da bambini, ci si era imbattuti e guardando dentro abbiamo provato a seguire la via dei perché fino a sentire l’eco solitario della nostra voce scivolare all’infinto, arrivando nel nulla se riusciva a oltrepassare gli atti di fede. 

Nichilismo, esistenzialismo, assurdismo. Comunque la si guardi è evidente che del nulla che sta legato al vivere, di certo non c’è da guadagnarselo.

E allora forse vorrei togliere la maschera da Pulcinella, che di certo l’edonismo invogliato alla fermata dell’autobus non è la sostanza di cui son fatti i sogni. 

Economia, sostenibilità, povertà, metaverso. Tutto sembra un necessario intricato Tetris in cui si continua ad attendere la I da 5 blocchi che risolva tutto e così togliere l’acqua alla gola e cambiare quella musichetta ansiogena di sottofondo di quando si è vicini al game over

Spero che d’ora in poi la frase “guadagnarsi da vivere” non vi lasci indifferenti. Spero smuova qualcosa, anche il più piccolo scotimento di ciglia. Ma davvero posso giocare a Fifa con un coreano nel metaverso e, come l’uomo delle caverne, sia normale pensare che la vita vada guadagnata?

Roma, 29/06/23

Read More

Mentre cerco di mettere insieme le idee per sviluppare un progetto di riflessione e presa di coscienza corale, ho deciso di ri-cominciare a condividere alcuni pensieri. Centri di gravità che condizionano il flusso di coscienza che vorrei svelarmi.

Spero che tra loro si trovi un briciolo di coerenza, se no, sarà interessante guardare nel vuoto o nei vortici che creano.

Come far più nostro il presente?

Ho tre momenti culturali, chiamiamoli così (potrebbero essere cose viste o lette, oppure, esperienze), che mettono a fuoco una tendenza che sento mia, non so quanto sia comune, ma ogni volta che ci penso mi piace e nella quale mi identifico.

Evito di darle un nome che a creare concetti nuovi ci pensano quelli del marketing – che poi sono sempre con gli occhiali da sole. 

I tre momenti culturali che la raccontano, rappresentano sono:

1. Film “The Great Gatsby”: ad un tratto Nick Carraway (l’amico di Gatsby – voce narrante) interpretato da Tobey Maguire (per me Spiderman bacio a testa in giù) mentre tutti scopano in una stanza dice – parafraso – di sentirsi “dentro quei momenti, e al tempo stesso fuori da essi”, li viveva e li descriveva-giudicava.

2. Il limite come luogo (topos – per fare i fighi) della filosofia. Lo “stare nel limite”  tipico della filosofia. Quel punto in cui si è abbastanza vicini a ciò che succede per sentire in prima persona ciò che succede, ma non così vicini da esserne totalmente rapiti. 

3. Il crescere in periferia e l’andare in città, l’abitare all’estero, il vivere fuori sede. Quei momenti che scuotono la silenziosa normalità delle consuetudini prese per osmosi e mentre la vita scorre ne fanno scorgere la diversa increspatura di onde e colori.

Sentire da dentro e descrivere da fuori. 

Forse la sintetizzerei così, che poi è pure il nome che darò (ho dato) a questo pensiero.

A conferma che sia una pratica buona, condivido qui sotto una breve analisi dei modi su queste variabili ipotizzando modi alternativi:

Read More

[ENG version below]

Siro Industry compie 10 anni! yeah 🙂

Nato per esplorare e condividere stati d’animo e dare un senso al cambiamento individuale durante il passaggio della maturità scolastica (La banalità non è mai stata così evidente. Uno zibaldone di pensieri) al poi mutare in società e marketing, sperimentazione di media diversi per arrivare ad una sorta di taccuino filosofico e di esperienze.

Quali sono dunque le tre cose che direi al me stesso di 10 anni fa, quello che nei caldi pomeriggi d’Estate andava ad aprire il suo primo blog? 

Credo che riassumerei il tutto in:

  • Conosci te stesso
  • Alimenta la curiosità, con una struttura in mente
  • Investi in relazioni

Detto tutto e niente, vediamo di argomentare i tre punti in modo semplice ma esplicativo.

Conosci te stesso

Prenditi del tempo per riflettere su chi sei veramente, rimuovi le influenze sociali, consumistiche e di ego che condizionano l’identità propria. Utilizza test psicologici, parla con le persone, leggi filosofia e scopri cosa ti motiva, ti eccita, ciò in cui sei bravo. Sappi regalalarti momenti di puro pensiero e riflessione, scopri il perchè delle emozioni. Positive o negative che siano, sono fonte di insegnamento unico e prezioso.

Alimenta la cuirosità, con struttura in mente

Imparare, scoprire nuove prospettive, acquisire conoscenza. Elementi fondamentali. Al tempo stesso occorre dare struttura e mantenere un costante equilibrio su ciò in cui si investe il proprio tempo – unica risorsa personale. Impara dunque per:

  1. Avere una professione che possa darti un reddito – funzionale – ikagai
  2. Essere un buon cittadino del mondo – etico-morale-sociale – valori e principi
  3. Godere della vita – cultura (a tutto tondo) come risorsa per vivere bene

Investi in relazioni

Circondati di persone che sappiano dare vita a tutti i lati del tuo essere. Non trascurarne nemmeno uno. I più impegnati, i più divertenti, quelli che ti danno amore e gioia e quelli che ti aiutano a crescere.

 

Questi sono i tre concetti che mi direi sottovoce, in un sogno o in un taccuino da rileggere nel passato per farne tesoro nel presente e futuro.

Buon compleanno Siro Industry!

Siro

 

 

[ENG]

10 years of Siro Industry! that’s awesome.

A blog born to talk about emotions and change during the last year of high school. It’s been a transforming journey: marketing & society, innovation, media exploration to get to the present day, where it’s a sort of philosophy and personal experiences notebook.

Arrived at this point, what are the 3 key things I’d love to share with my young self, 10 years ago, while posting for the first time on this blog?

They can be summarised in:

  • Know thyself
  • Nurture your curiosity, with structure
  • Invest in relationships

Let me try to explain them further.

Know thyself

Take your time to think about who you are and what motivates you. Remove all the layers made by society, consumerism, ego to really get close to your inner self. Use psychology, philosophy, talk with people and learn what really form you. Ensure you spend time alone to reflect and understand your emotions: they will be a source of incredible wisdom.

Nurture your curiosity, with structure 

Being able to learn new things is key to grow. At the same time, you need to consider how you invest your time and ensure you balance it among these three needs:

  1. Get a job that provides you an income – functional ikagai
  2. Be a good global citizen – ethic-morality-emotional and cultural intelligence – values
  3. Enjoy life – culture as a resource to live well

Invest in relationships 

Be surrounded by people who allow you to express all the angles of your personality. From the most serious to the crazy ones to those who help you to love and those who help you to grow.

 

These are the three things I would whisper to myself in a dream, o write down in a notebook to be able to read in the past to live present and future.

Happy birthday Siro Industry!

Siro

Read More

Delhi è la capitale dell’India. A volte conosciuta anche con il nome di Nuova Delhi, ha una popolazione di 26 milioni circa di abitanti. Praticamente quasi metà Italia (scegliete la sezione che volete) raggruppata in una città. Tutta in un unico, ampio, affollato, agglomerato complesso urbano.

Quando a lavoro mi hanno detto che sarei potuto andare per una settimana a Gurgaon, hub tecnologico mezz’ora a sud di Delhi, non ho esitato. Lavorando a Londra, il contatto con l’India è quotidiano. Bisogna ricordarsi che l’India sta all’outsorcing (lo spostamento di alcune funzioni aziendali, esempio la produzione) delle aziende di servizi, come la Cina lo sta per quelle di beni. Dunque lavorando a Londra, l’India è una presenza significativa nel contesto quotidiano a partire dal lavoro, salvo poi arrivare al mangiare ed altri aspetti culturali (per altre ragioni storiche).

Atterrato a Delhi ti accorgi all’istante cosa significa essere in una delle città con il maggior inquinamento dell’aria al mondo. L’aria è pesante, ad ogni respiro è come se si inalasse qualcosa di felpato, di denso. All’inizio lo si fa con un po’ di fatica, poi lentamente ci si abitua. Anche se la sensazione che rimane, portata anche dalla foschia che copre la città, è quella di essere sommerso, coperto da un velato tappeto di smog.

Prendo il taxi e mi faccio portare all’hotel. Il traffico è senza precedenti. Una giungla di macchine si intrecciano per le tre corsie della strada che porta al centro, Connought Place, CP per i locali. Lento ed indistricabile groviglio di piccole celle di lamiera su cui a milioni di persone cercano il primo spazio per infilarsi, a suon di clacson, per farsi spazio, riuscire ad avanzare, ignorando le strisce e con l’unico scopo di arrivare.

Passano le prime due ore e riesco a districarmi da un complesso ed ingegnato programma per riuscire ad accapparrarsi i soldi dell’uomo bianco, dello straniero. Cammino per strada e scherzando ammetto con me stesso: “ora capisco come si sentiva la ragazza bionda delle superiori”. Tutti si voltano, ti guardano, senti e vedi gli occhi loro su di te. Incuriositi, invitati, alcuni provano a darti consigli su “zone da evitare” o sui “posti giusti” in cui andare. Altri poi chiederanno un selfie insieme.

Fortunatamente per la restante parte del giorno un paio di colleghi basati li mi raggiungono: mi faranno da Cicerone in alcuni punti più antichi e trafficati della città e all’indomani riuscirò a muovermi in solitudine per esplorare alcuni templi, recitando una sicurezza che spesso aiuta ad essere lasciti in pace.

36 ore in Delhi dunque, prima di spostarmi a Gurgaon dove sarei tornato in un micro clima occidentale per altri 4 giorni.

 

Tralascio qui ogni tentativo di voler concettualizzare dei punti chiave di riflessione, e mi limito ad elencare i vari aspetti che mi hanno colpito, affinchè ognuno possa compararli alla propria realtà ed esserne dunque affascinato, stupito, incuiosito, ma senza provare ad emettere sentenze o giudizi di alcun tipo. È sempre affrettato e sbagliato giudicare in casa d’altri senza conoscerne tutti gli aspetti.

  • Il cibo è ricco di sapori, di salse. Una tavolozza di gusto da esplorare
  • Per lavarsi i denti è consigliato usare l’acqua in bottiglia
  • Il the si prepare nel latte con un po’ di acqua, non il contrario
  • Il movimento destra-sinistra della testa vuol dire si, no, non lo so, non saprei
  • A Delhi ci sono templi di tutte le religioni
  • Ci sono scene di povertà estrema (famiglie con bimbi di qualche anno che vivono ai bordi della strada con lo smog che pian piano gli colora la pelle)
  • Il commercio è linfa vitale di dialogo, si negozia
  • Le persone ti accolgono sorridenti, sono interessate, ti fanno sentire subito a casa
  • Il ritmo è caotico ma disteso. Si ha sempre tempo per una pausa chai.
  • La pressione sociale è forte: ci si sposa prima di convivere, si vive nella casa dei genitori
  • La voglia di emergere è chiara, l’occidente è un salto verso un nuovo tenore di vita
  • Il colonialismo occidentale è presente ma non pervasivo
  • Ci sono molti cani randagi, sono pacati
  • La capra è un comune animale tra le famiglie povere, dà latte ed è facile da mantenere
  • Suzuki è la casa automobilistica più presente (almeno mi sembra)
  • Una corsa di uber sta sui due euro, si può fare un pranzo con sei
  • Lenticchie e melanzane sono originarie dall’India
  • Dato che parte della popolazione è musulmana e parte è induista, sia maiale che vacche non appaiono nei menu

 

Ecco dunque, alcune righe per trasmettere oltre le immagini ed in maniera relativa dunque personale, una prima esperienza, breve ma intensa, tra le vie di Delhi e di quell’affascinante e millenario pease che è l’India.

Read More

Da bambino mi annoiavo un sacco.

Cresciuto nella prima periferia ai bordi di una città che fatica a chiudere i sessanta mila abitanti, non c’era molto da fare. Curioso ed iperattivo, quando non ero con gli amici a giocare a calcio, passavo le giornate in camera, annoiato.

Questo mi dava lo stimolo di sognare, immaginare, fantasticare e creare.

Mi ricordo quel pomeriggio d’estate in cui, volendo imitare mio papà che lavorava al pc, avevo creato una sorta di notebook su un quadernino usando la schedina del Totocalcio e una pagina bianca.

Erano gli anni 90, il mondo girava offline e la coppia televisione e radio era l’unico modo di gustare contenuti, spesso registrati in cassette e videocassette e ripetuti fino alla nausea.

Anche fuori, visti i budget limitati, si cercava di compensare quel che mancava con l’immaginazione tipica del bambino: e quindi un lenzuolo con dei rami secchi diventavano il quartiere generale di chissà che cosa, un piccolo canale d’irrigazione secco un percorso ad ostacoli degno del migliore Takeshi’s castle.

Londra, 2018.

In una città iperstimolante e sempre online, il primo obiettivo da quando si schiudono gli occhi al mattino è quello di abbattere la noia, formare squadre di valorosi compagni con un unico scopo ed intento: annientare e sconfiggere la noia.

Abbiamo un tempo limitato da spendere vivi. Uno che vicino al nome ha l’attributo di Magnifico ha vinto diverse pagine del testo di letteratura dicendo “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia!”. Bisogna dunque prenderla questa giovinezza, afferrarla, make the most out of it.

Se a questo poi ci si aggiunge l’ambiente mediatico in cui si è immersi, in cui occorre vivere a seconda dell’estetica del momento che appare, per noi come ricordo futuro e per gli altri come posizionamento sociale per aiutarci a soddisfare quell’innato istinto di accoppiamento e riproduzione della specie, è lapalissiano che la noia non possa essere un’alleata ideale con cui spendere le giornate.

Anche perché, dopotutto, la noia non si può condividere nei social media! E se si riesce, non è materia per likes.

Eppure, Einstein ha passato un paio d’anni della propria gioventù a non far nulla prima di decidere trovare la giusta ispirazione (non trovo la fonte, ma ricordo di averlo letto da qualche parte), lo stesso Paolo Sorrentino ha raccontato in un TED quale importanza ha la noia per la sua ispirazione. Altri autori ne discutono l’importanza. E se devo essere sincero, molto spesso le cose più cool che ho fatto in passato, le ho pensate mentre ero annoiato.

Ed allora, perché non riusciamo, vogliamo annoiarci?
Perché la noia è questo buco nero in cui si cerca di stare alla larga in tutti modi?

Forse una risposta parziale l’ho data nel paragrafo sopra, ma non credo sia esaustiva.

Cosa fare dunque? Non è facile scegliere tra un’immediata gratificazione data dal fare qualcosa, disponibile oggigiorno come i kebab fuori dalle discoteche o un lento e spesso inconcludente processo di annoiamento consapevole.

Non ho dunque una risposta – I’m so sorry – ma mi sento comunque di fare un elogio alla Noia.

Bisognerebbe re-iniziare a considerarla quando si schiudono gli occhi come una valida alternativa alle varie opportunità che ci si aprono davanti.

Chiediti dunque, quand’è stata l’ultima volta che ti sei veramente annoiato?

Anche perché, mi sento di dire che senza noia, credo non esisterebbe nemmeno il divertimento.

Read More